3 X 3: New Media Fix(es) on Turbulence


il corpo in “turbulence”
the body in turbulence
el cuerpo en turbulencia
di Josephine Bosma | Traduzione di Francesca De Nicolò | Editing Lucrezia Cippitelli

Dieci anni di “Turbulence”. Suona come un disastro. Trattasi di dieci anni di una turbolenza costruita con attenzione e di dieci anni di paziente supporto, di costruzione collettiva di arte on line. Una cosa che colpisce è il contrasto tra il suo nome e il suo contenuto. “Turbulence” è infatti calma e controllata. L’ho vista crescere lentamente e mi sono chiesta dove sarebbe andata. È partita come un lavoro d’amore e la mia speranza è che la sua iniziale spinta ci sia ancora, quale parte del singolare tocco di Helen Thorington. Helen Thorington, è una delle personalità più rappresentative della radio art, sound art e performance negli Stati Uniti, ed ha fondato la influente serie per la radio New American Radio (1) nel 1987, aprendo poi nel 1996 “Turbulence” nella volontà di dare un sguardo indipendente al fenomeno della net art. Due anni dopo è stata contattata da Jo- Anne Green. Così “Turbulence” è stata concepita con la contemporanea intenzione di guardare allo sviluppo della sound art e della perfomance, andando “oltre lo schermo”.


Tina la Porta | Distance | 1999

perfomance e media
perfomance e mediaperformance and media
performance y medios


È un mito quello costruito intorno all’idea che l’arte on line e la net art disperdano il contatto con il mondo fisico realizzando un ‘arte dematerializzata. Da quando è iniziata la net art c’è stato un grande interesse per le connessioni corpo/spazio, sulla possibilità di costruire ponti e stabilire relazioni interpersonali. Pensiamo a Hole in Space degli anni Ottanta ( Public Communication Sculpture) di Sherrie Rabinowitz and Kit Galloway (2), e alle performance multimediali che hanno preconizzato Internet già nei primi degli anni Ottanta (3). Poco dopo gli anni Novanta, abbiamo assistito ad un altro passaggio importante, quello delle perfomance musicali decentralizzate, che usavano Internet e i suoi sviluppi, sino ad arrivare alle perfomance che sono culminate, senza eguali, nel network Piazza virtuale Van Gogh TV presentato a Documenta 9 nel 1992 (4). La perfomance, è quindi una fondamentale attività in Internet. Ma cos’è la perfomance art? Negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, la performance è stata una testimone importante che ha veicolato azioni uniche che realizzavano in tempo reale il genio dell’artista. La performance è nata per ripetere se stessa, per riazionarsi da sola e in questo senso si è legata anche al teatro. Negli anni ha poi mediato tra il video e la radio, stretta tra le installazioni e attività multimediali, ed è sempre più scemata la sua qualità perfomativa al passo con la sua vita.

Ripetività. Mediaticità. Tempo individuale. La rete offre una quantità di lavori e siti che sono continuamente e diversamente riaccessibili. La rete è un medium liquido e caotico, che passa una moltitudine di materiali, che editati, interagiscono con le esperienze di ognuno, realizzando un’immissione individuale ogni qual volta clicchiamo. D’altro canto Internet nell’insieme ha molto a che fare con la comunicazione e la connessione e trova nella performance e nei processi che vi intercorrono i suoi interessi fondanti. Così, in questo nuovo ambiente, la perfomance, arte focalizzata sulla presenza corporea e sul movimento, ci offre un incontro con noi stessi in “un modo differente”. L’arte della perfomance on line è quindi parte di una riflessione che si interroga sulla fragilità del corpo umano (assimilabile all’ Hyperbody (5) di Pierre Levy e al “Posthuman” seguendo l’analisi di Katherine Hayles (6), e sulla solitudine e sulla costruzione di identità nella realtà tecnologica. Si tratta di un’attività che difetta dell’odore e della comunanza fisica tipica di una perfomance nella “vita reale”, ma che ci induce a riflettere sul nostro stato di base sia sociale che fisico, che generalmente perdiamo quando entriamo in relazione attraverso un network.

Attraverso questo confronto quindi la performance aumenta di drammaticità stretta dalla relazione con il suo contraltare fisico. Questa situazione è assimilabile più che al guardare semplicemente un film, all’essere immersi nelle sue sequenze; la performance on line utilizza quindi i nostri corpi e le presenze individuali per diventare reale.

 

il nuovo corpo nella net art
the new body in net art


I nostri corpi sono modificati dalla relazione/connessione con i nuovi media. Il personal computer e il cellulare hanno radicalmente trasformato i nostri spazi personali. Così mentre il nostro “sociale” è diventato molto più attivo e diversificato i nostri corpi sono molto più immobili e passivi. Ora infatti ci sediamo e tocchiamo le “chiavi”, dalle nostre scrivanie, nei parchi, in treno, all’aeroporto. La nostra attività sociale e il movimento corporeo non hanno più molta partita. Questo è lo stato già avverato e modificato di un “nuovo corpo” che definisco come socialmente iperattivo e fisicamen e dislocato. Spesso infatti “ci troviamo dove non siamo fisicamente”; e non a caso l’operatività sociale e la dislocazione corporale sono temi attraversati nella net art già da molto tempo. La cosa interessante di entrambi gli aspetti è che nello stesso tempo ci distaccano e ci avvicinano dal nostro corpo, manifestando un senso d’incertezza, una perdita di equilibrio, che contemporaneamente diventa stimolante e paralizzante.

I precursori della net art, o i veri i primi esempi di questa attività, esplorano quasi tutti la cosiddetta estasi della comunicazione mediatica. Il nuovo corpo non è diventato realmente il dominante fenomeno sociale ed è oggi al tempo stesso il fenomeno culturale, dato che la tecnologia, quella creata, è ancora di accesso difficile (si pensi ai network digitali), non essendosi sviluppata ancora definitivamente (cellulari). Gli esperimenti sull’arte e nuove tecnologie sono quindi stati necessari nelle attività di gruppo, e l’alternativa dei media ha già definito l’esperienza dell’“utente”. Prenderò in esame due nuovi lavori di “Turbulence” che illustrano la transizione dal vecchio al nuovo corpo.

Quando Sherrie Rabovitz e Kit Galloway hanno presentato Hole in Space, l’esperienza del pubblico e/o partecipanti è stata molto diversa da quella di The World in 24 Hours messa in piedi da Robert Adrian (7). La differenza era sostanzialmente data dall’applicazione di una diversa tecnologia: nella prima c’era una semplice postazione dal vivo di una TV satellitare, nella seconda era presentata una cacofonia di fax, scan, TV, email e radio. La reale diretta e semplice interazione in Hole in Space, è data dall’ondeggiare e strillare di persone a milioni di miglia distanti che a loro volta rimandavano indietro il loro ondeggiare e le loro urla, situazione in cui era mantenuta intatta la percezione della “presenza fisica”. Non c’è dubbio sul dove si è e su chi si è, c’è solo lo stupore creato da una sorta di specchio magico che dilata lo spazio e il tempo e non inghiottisce. In Hole in space è presente un inedito senso d’intimità con le persone dall’altra parte dato dal senso di consapevolezza di un gruppo di vicinanza “fisica”.

The World in 24 Hours, d’altro canto non è solo una performance decentralizzata tra postazioni, ma è la messa in atto della decentralizzazione connessa ad ogni postazione. I partecipanti in questa perfomance erano seduti, aspettavano, mandavano fax, scattando o guardando fotografie, divisi dalle diverse tecnologie che utilizzavano. Anche se erano più in comunità di quello che succedeva con il pubblico “in comunione” di Hole in Space, il loro senso di performance era definito molto di più dalle loro azioni individuali e ruoli in ogni postazione. Questi collaboratori dovevano comunicare in modo esteso, localmente e mediamente in modo da sperimentare il pezzo completamente, in modo da riassemblare infine tutto il lavoro. Dovevano sperimentare una consapevolezza fisica di gruppo e allo stesso tempo un senso di dislocazione.

Le più innovative performance on line stanno distribuendo insieme un differente tipo di network. I principi basilari di connessione, dei computer, server, dei cavi elettrici, dei satelliti ci sono ancora ma con le nuove tecnologie (F.Ex. the web, peer to peer software) hanno raggiunto al massimo la loro espansione. Una variante rispetto al passato è certamente data dal fatto che da The World in 2 hours ad oggi gli accessi tramite computer e Internet sono diventati “personali”: ora non ci rechiamo più presso un’istituzione per accedere ad un network o ad un computer, ma sperimentiamo questo “accesso” nelle nostre case, e possiamo trasportare questi media anche in tasca. Tutto ciò ha inevitabilmente causato lo sviluppo di un nuovo corpo o di qualcosa di molto simile. Siamo quindi vicini in questo senso a quell’esperienza fisica che già E. N. Foster aveva descritto nel 1909 in The Machine Stops (8), dove teorizzava l’immobilità e l’isolamento legati ad una vita completamente mediatica. Così il nostro mondo sta diventando meno fisico e sempre più sociale, situazione nella quale la memoria del movimento e della fisicità iniziano a decostruirsi, mentre contemporaneamente ci ossessionano. Questo è il motivo per il quale ritengo che la performance on line, che ovviamente non è dal vivo, è comunque avvincente.

 



Tina la Porta |
Distance | 1999


Tina LaPorta - Distance

Nel database di “Turbulence” ci sono lavori che ci danno la possibilità di analizzare le performance on line e di rintracciare la sperimentazione di questo “nuovo corpo”. Iniziamo questa ricognizione, guardando al lavoro di Tina La Porta Distance del 1999 (9). Si trartta di una riflessione sulla possibilità di incontrare persone attraverso il Cuseeme software, un software di video conferenza in uso dal 199 , in cui una webcam consente alle persone di vedersi chattando singolarmente o in gruppo. Sono semplici immagini in bianco e nero che hanno ancora qualcosa di magico. Inutile dire che come accade in molti primi lavori di net art, questa magia è data dall’assenza di suono e in questo caso anche dall’assenza di colore. La net art ha generato, com’è noto, una sorta di shock nel pubblico, ha proposto un luogo d’interazione on line fruito da molti giovani artisti dai primi anni Novanta. Il web ha infatti realizzato una nuova possibilità di ascolto e di visibilità on line che prima non era possibile. Prima del web “essere on line” significava prendere parte a tutta una serie di intimità, di scambi interpersonali, che non implicavano il surfare nelle pagine web. Questo è il motivo per il quale il nuovo utente web è chiamato scherzosamente “interpassività”: un’utenza nuova e più passiva, già guastata da chiassosi film e dalla TV a colori. Uno schermo, che mostra esclusivamente del testo, ed alcune semplici immagini, sembrano una degradazione indotta dall’estetica mediale ed affascinano. I suoni rubati, il movimento fluente e in casi come Distance la mancanza di colore, danno spazio ad uno schermo “amputato”, luogo di una nuova e sociale interazione, dove la tecnologia e i suoi utenti, sono parte dello stesso sviluppo. Distance così è un lavoro sintomatico di una riflessione sulla vulnerabilità, riferendosi ad un doppio aspetto. L’assenza di suono aumenta il senso di consapevolezza del fruitore e crea una singolare bolla tra utente e schermo e al tempo stesso realizza una speciale connessione tra i due. Così l’immagine si muove senza suono mentre il movimento connesso al cliccare diventa innaturale.

Possiamo sostenere che questo lavoro parte di una riflessione, che parte da Cuseeme, con
un’attenzione molto più formale? Non so se si possa affermare. A mio avviso, è un lavoro realizzato con lo specifico scopo di riflettere su questioni universali che si riferiscono alle relazioni tra “esistenza umana” e sviluppo tecnologico, disegnando un triste percorso che riflette più sulle emozioni che sulla tecnologia. Così come un vecchio film in bianco e nero del 1920, Distance, anche se datato, resterà vivo con la sua potenza ancora per molto tempo. D’altro canto i veri lavori d’arte sono sempre contemporanei in qualsiasi momento. Non c’è nulla di strano.

Distance è un un lavoro duro, sofferente da vedere. Crea attrito perché è una combinazione di semplici gesti tecnologici, molto prevedibili ma scelti in modo essenziale. L’intenzione è quella di dimostrare il fallimento dell’uomo quando insegue il desiderio di stabilire sostanziali contatti con gli altri. Ed è quindi un’essenziale riflessione sulla solitudine mediale, che cita il regista canadese Atom Egoyan (10), e la sua analisi dell’interazione sociale e della solitudine intermediale vista attraverso le lenti di una macchina fotografica. Le sequenze di Distance sono sezioni di un film a rallentatore dove automaticamente avvertiamo lo scarto tra le immagini e quello che è oltre. La sofferenza è provocata dall’imbarazzo di essere messi a confronto con la sofferenza di un’altra persona, mentre si realizza una melanconica comunanza di sensazioni e di reminescenze. Questa situazione mi ha fatto pensare molto a quello che succede nelle performance “fisiche” e tradizionali, assistendo alle quali si ha la contemporanea necessità di andare via e di rimanere. Inoltre nonostante il fatto che le persone delle immagini non sono nude, sembra che lo siano.

La scelta delle immagini di La Porta (le finestre di Cuseeme che mostrano fotogrammi dei partecipanti) e le parole e l’illusione di una partecipazione collettiva generano anche un senso di solitudine. La Porta ha rilasciato, a questo proposito, un intervista con David Rieder sempre su “Turbulence”, commentando il senso di dislocamento. Un dislocamento quello analizzato da La Porta, che fa riferimento alla perdita di equilibrio tra l’interazione sociale e il movimento fisico. Per La Porta, quindi, l’accesso nel cyberspazio crea una doppia identità, quella pubblica e quella che è ancora chiusa o ignota nella privacy data dallo spazio personale. “Siamo così sempre [...] fuori, incapaci o restii nell’immergerci completamente nello spazio pubblico” (11). Essere on line rende la persona definitivamente mediale, fuori da sé e allo stesso tempo intimamente connessa con sé stessa.



MTAA | 1 Year Performance Video (aka samHsiehUpdate) | 2004


MTAA- 1 anno di performance video (aka samHsiehUpdate)


Se mettiamo a confronto Distance con un altro progetto di “Turbulence”, 1 Year Performance Video (12) di MTAA vediamo che le dinamiche che scatenano l’attrazione emotiva sono in enorme contrasto con il precedente. Il lavoro di MTAA è la traduzione di una performance di Sam Hsieh nella quale l’artista si chiuse letteralmente nel suo studio per un anno nel 1978(13). Nella soluzione tecnologica di quest’idea gli artisti si sono ovviamente liberati dai confini fisici che Hsieh voleva enfatizzare. M. River e T. Whid hanno stavolta connesso alcuni loro video con un’applicazione software dando l’illusione di un web cast dal vivo: come se fossero chiusi, a loro volta, in studio. Non c’è nessuna attenzione per stratagemmi tecnici in questa riemanazione, nella quale i due sono esclusivamente enfatizzati da questa situazione che al tempo stesso disperde l’ipotetico “coinvolgimento emotivo”. 1 Year Performance Video è stato così chiamato, anche, per citare la tradizionale moda di riesplorare vecchi lavori, immettendo una soluzione che cita anche il mondo dei videogiochi. Quello proposto è infatti una sorta di lavoro/videogioco d’arte nel quale non c’è un prezzo: il tutto funziona infatti, se l’ipotetico visitatore entra in contatto più volte con il sito nell’arco di un anno, con tanto di lista dei nomi dei migliori giocatori. L’attenzione è così catturata dalle trasformazioni tecnologiche. Potrebbe inoltre sembrare che l’utenza sia mutata, ma in realtà si ricrea la sintomatologia della performance di Sam Hsieh: poiché non è chiusa in una scatola, ma comunque stretta in una scatola. Si avverte l’illusione di uno spazio fisico dove i fruitori fanno solo quello che l’artista fa: delegando alla macchina il tutto. Lo scambio è di non dimenticare di girarci ogni volta che si è on line.

C’è, quindi, un’ovvia connessione con quella parte di net art che fa del sarcasmo e della provocazione un suo intento principale. I due si riferiscono alla nota questione arte/tecnologia, secondo la quale l’artista può delegare alla macchina la completa produzione. Molti critici d’arte hanno dequalificato la net art perché la ritengono esclusivamente una copia mimica di altre discipline con nulla di nuovo da proporre. Così MTAA, cinicamente, si inseriscono in questo dibattito e danno ai critici quello che vogliono rispondendo con lo stesso linguaggio. Sembra che puntano il dito, sostenendo senza mezzi termini: “Non abbiamo bisogno di idee originali, vogliamo esclusivamente sperimentare le vecchie idee” (14). Questo atteggiamento fa pensare anche a tutte quelle prese di posizione attuate in questo senso. Mi riferisco in particolare ad un gruppo italiano gli 0100101110101101.org, intervistato da Tilmam Baumgaertel per la rivista on line “Telepolis 1999” (15); durante l’intervista, in una discussione su interventi d’arte controversi come quello di Alexander Brerer che spruzzò spray su un Malevich al Museo Nazionale di Arte Moderna di Amsterdam (Stedelijk Museum), Baumgaertel sottilineava il fatto che questa azione aveva impedito la normale fruizione dell’opera di Malevich. Analisi alla quale gli 0100101110101101.org sarcasticamente rispondevano: “bè... comunque lo possono vedere nel catalogo” (16). Un’azione dissacrante può quindi innescare molteplici eventi, definendo il suo spazio, e affermare una posizione spingendo anche gli altri a schierarsi a loro volta.

Questo lavoro è quindi selezionato come l’opposto emozionale di The Distance di Tina La Porta. Qui infatti, invece di lamentare la perdita della realtà e della reale intimità, la “nuova realtà” è celebrata radicalmente. 1 Year Performance Video non ci mette a confronto con la fragilità del nostro corpo e della realtà on line (MTAA sostengono di essere consapevoli di questo passaggio da lungo tempo) ma ci spinge ad accettare questa soluzione in modo scanzonato e sarcastico.




Michael Mandiberg | The Essential Guide to Performing Michael Mandiberg | 2002


Michael Mandiberg - The Essential Guide to Performing Michael Mandiberg

The Essential Guide to Performing di Michael Mandiberg (17) è un lavoro sintomatico di una riflessione di natura ancora diversa, parte di un più grande progetto iniziato da Mandiberg, in cui alcuni artisti barattavano le loro informazioni identitarie (18). Si tratta di un lavoro nel quale Mandinberg scrive un manuale in cui raccontava di sé nei minimi dettagli. Quasi tutto poteva essere associato al suo profilo psicologico partendo dai suoi amici, dalla sua infanzia, dalla sua carriera scolastica, dal suo cibo preferito e dalla musica realizzando così una strana mescolanza di esibizionismo e di un voler mantenere le distanze. La scelta dei fatti rilevanti della vita di Michael Mandiberg sarebbe infatti stata molto diversa se qualcuno vicino a lui avesse scritto questa guida.

Molte informazioni sostanziali della sua vita sono omesse, come il suo primo bacio, il suo numero di carta di credito, le sue convinzioni politiche le sue speranze e i suoi timori per il futuro. Potrebbe sembrare così, ad una prima occhiata, una sostanziale descrizione; ma se leggiamo tra le righe notiamo che la guida offre in realtà una limitata visione di Mandiberg. Per esempio, da uno smaliziato punto di vista femminile, come può essere il mio, sembra essere scritta con un approccio tipicamente maschile. Una frase molto divertente delinea chiaramente la tensione insita tra l’esibizionismo ed il mantenere le distanze. È un commento nel capitolo “Confessioni su se stesso” che recita così: “Nel passato le tue confessioni venivano lette come arroganti, adesso attraverso la rete non sono dirette ad altri, perchè é come se circolassero unicamente dentro di te”. Mandiberg, così, usando la parola “tu” e non “io e “tuo” invece di “mio”, nell’intera guida non mantiene solo le distanze da se stesso (e da qualcosa rimosso dal suo testo), ma crea l’illusione dell’obbiettività, e abolisce la percezione di sé, in quanto Michael Mandiberg, proponendo una sorta di verità/realtà universale. Inoltre, creando un’apparente vulnerabilità, si rende definitivamente intoccabile. La scelta di un linguaggio semi-obiettivo e di scrivere una biografia mischiata a “un come fare” tipico di una guida, immette l’utente in una reale esperienza emotiva anche se la guida è epurata da emozioni, o piuttosto, le emozioni sono soppresse e deformate. Questo processo ha quindi uno scopo specifico: realizzare una performance che abbia in sé un intento concettuale, riferendosi a qualcosa che verrà sciolto più avanti.

La guida inoltre enfatizza molto il fatto che Mandiberg è un artista, anche se il capitolo in cui descrive quello che lui ama fare e non ama fare non è affatto assimilabile ad una discussione d’arte. Il testo è quindi letto dal fruitore più come un annuncio pubblicitario che come una biografia. L’artista decostruisce se stesso in un insieme di bit di informazioni che riguardano solo quella parte di sé che intende rappresentare. Non attua delle scelte coraggiose, come quando nel suo Shop ha manifestato la sua bisessualità rivelando che ama usare un buttplug quando si masturba. In un’intervista con Erik Salvaggio, Mandiberg sostiene infatti di voler vendere se stesso attraverso i suoi oggetti: intenzione che è alla base dell’operazione Shop Mandiberg (19).

Va comunque notato che ci sono molti termini epurati da questo “shop” o “guida” rispetto a quelli del precedente Shop Mandiberg. Una guida in cui si sperimenta un altro modo di essere dovrebbe contenere dati molto più personali, fatti di informazioni sia positive che negative: tale forse dovrebbe essere la sua potenza e la sua pretesa. Il testo invece qui perde la sua forza e non vive oltre il suo sostanziale potenziale perché non contiene quei “dati sporchi”.

Il testo non realizza volutamente un sostanziale e intimo livello di connessione puntando ad essere probabilmente solo un’introduzione. Incontrare qualcuno on line d’altro canto non è mai una cosa così preparata e pensata. Mandiberg ha così ritrattato e ricreato se stesso fingendo le sue caratteristiche. The Essential Guide to performing Michael Mandiberg è in questo senso e a mio parere, uno dei segnali più intensi di arte concettuale che sia stato scritto in rete. Il progetto si muove tra l’essere una sceneggiatura, una biografia e un segno d’arte. L’attore in gamba, o analogamente il performer, dovrebbe risucchiare la radicale dispersione potenziale insita nel testo e scavalcarla.

Ma il testo difetta di senso, perché non è solo una guida pur mantenendo comunque un contatto con l’idea di identità barattata per il quale originariamente era stato scritto. Quindi come molti famosi segnali concettuali realizzati in forme diverse dagli artisti in questi anni, questa lavoro propone comunque le differenti versioni di Michael Mandiberg (20). Nel web molto spesso i lavori indagano i temi della privacy e dell’identità. In questo lavoro, Mandiberg si riferisce a se stesso come ad una persona esclusivamente mediale. Così nonostante,s tutta la sua selettiva e “purificata” descrizione può essere intesa come un tentativo di mantenere il controllo sulla sua vita dopo l’insospettato successo di Shop Mandiberg e dopo la smisurata attenzione che ha attirato.

Nel suo successivo lavoro Mandiberg finalmente ha accettato maggiormente la possibilità di “un’esposizione completa”. In IN Network ad esempio, Mandiberg e la sua partner Julia Steinmetz hanno utilizzato il loro frasario nudo e crudo. In questo modo, se c’è un processo di selezione alla base di IN Network, non viene dispersa comunque la sua forza.



Michael Mandiberg and Julia Steinmetz | IN Network | 2005


Michael Mandiberg e Julia Steinmetz - IN Network

Due persone a milioni di miglia di distanza convivono attraverso i cellulari. Non si chiamano se non poche volte al giorno e tramite il telefono mangiano insieme, dormono insieme e lavorano insieme. Non potrebbero stare al telefono l’uno con l’altro 24 ore al giorno, ma hanno trovato un sistema per stare insieme il più intimamente possibile: il cellulare. Si chiamano teneramente “dude”, esprimono il loro affetto, in silenzio alcune volte ed altre volte discutono di cose private. Si mandano immagini e semplici messaggi di testo. Vivono per un mese mantenendo i contatti attraverso “Turbulence”, spazio in cui sono archiviate le loro chiamate telefoniche, i loro messaggi e le immagini delle loro vite, dando vita a IN Network, un archivio on line di performance, documentazione e blog (21).

IN Network fa uso dello strumento del blog (weblog), qui inteso come la versione di massa del diario personale. Il blog viene usato per una buona quantità di scopi e da diversi utenti, che vanno dal corrispondente locale che scrive della situazione a Bagdad all’orgoglioso genitore che mostra le foto dei suoi bambini. La più importante caratteristica di un blog è che è molto semplice da utilizzare e che lavorarci ha qualcosa in comune con il creare degli sketch o scrivere su un giornale. Chi realizza un blog (blogger, artista, scrittore) ha inoltre un immediato, diretto e concreto risultato. Il blog è un software in grado di dare molte potenzialità espressive ai siti web.

La conditio sine qua non è ci siano idee forti e che siano comunicate nel modo giusto; solo in questa maniera si può dire di aver realizzato un lavoro interessante quanto un lavoro realizzato con inchiostro e carta. IN Network mostra così come un artista può realizzare un blog, dimostrando che non è il software ma la persona che lo realizza che fa la differenza. La selezione di ricordi, foto e testi, la consistenza e la disarmante tenerezza dei contenuti, la maniera nella quale gli artisti utilizzano il blog, hanno dato luogo ad un lavoro molto interessante che ha molto in sé del documentario o del film, in cui sono catturate ed editate le scene (espresse in file sonori, testi e fotografie) di giorni e di mesi. Il risultato è senza dubbio modificabile da chi osserva e fruisce e dipende da cosa si clicca ed edita, aumentando l’immersione. IN Network mette a confronto così il pubblico e l’affinità intima tra due amanti, amanti che sono in questo caso tanto distanti fisicamente l’uno dall’altro quanto il loro pubblico.




Yael Kanarek | World of Awe | 2003


Yael Kanarek con Evan Siebens e Yoav Gal et.al – World of Awe: Portal

Rappresentare la danza attraverso i media è spesso molto difficile. Portal è una danza realizzata appositamente per il web (22). In Portal Kanarek ha scelto di lasciare che l’ambiente on line (Internet, il software e l’utenza) fosse parte della danza in modo strutturale. La risultante dell’operazione è un film di danza interattiva che consiste in tre parti, ognuna rappresenta una minima e diversa sensazione. I filmati sono realizzati in flash, un software popolare per siti web che permette al designer di creare immagini in movimento con suoni, dai quali è spesso difficile sganciarsi; la parte sonora è realizzata appositamente da Yoav Gal.

I tre corti sono stati concepiti per il portale di Kanarek dove è attivo il suo progetto molto “corposo” World of Awe (23), ma allo stesso tempo sono fruibili anche singolarmente. World of Awe è quindi la trasposizione di una sorta di mondo fantastico, inventato, dove si entra da un portale immaginario. Queste porte che collegano ad un ipotetico mondo parallelo sono esplorate e aperte da una danzatrice, chiamata “la viaggiatrice”. La danzatrice è una giovane donna che indossa un cappuccio e occhiali da pilota nella prima e terza danza ed è vulnerabile e nuda nella seconda. Ed è quindi l’immagine/ guida che rappresenta il nostro attraversamento nel portale, assimilabile al traghettatore del fiume Stige; è destinata a spendere l’eternità in questi portali, danzando e mimando al suono di una musica accattivante. Se i precedenti esempi ci inducono alla riflessione sulla percezione immateriale del corpo e sulla distanza dai nostri corpi nel cyberspazio con connessa distorsione o mutazione del nostro sé immateriale attraverso i media, osservando la danzatrice è come se si realizzasse un cosiddetto “rientro nel corpo”. Lì infatti c’è un corpo che si muove al ritmo dei nostri click che ripete gesti, modificato a nostro piacere. Siamo così contemporaneamente il danzatore e il manipolatore.

Il gioco in soggettiva è un classico del videogioco. Come nei videogiochi molti dei personaggi hanno uno campo limitato di movimenti e di gesti, così le possibilità di manipolare la danzatrice in Portal sono limitate. Possiamo istigare piccoli movimenti o dei movimenti che sono comunque molto incisivi e creiamo movimenti a catena o eco che ci danno molto più potere di quello che generalmente abbiamo nelle esibizioni di danza. Questa interazione ci fa diventare parte della perfomance, come se fossimo disegnati nel contesto non solo in base alle nostre interazioni, ma anche attraverso un’identificazione con la figura umana che è costretta a ripetere sempre gli stessi movimenti volta dopo volta. Il tutto provoca un coinvolgimento emotivo che è aumentato da una musica ripetitiva e al contempo eterea.

World of Awe e Portal sono quindi lavori che riflettono sulle variabili della performance on line insieme a Mouchette.org (24). Ambedue, sia World of Awe che Mouchette sono realizzati da donne ( anche se l’artista dietro mouchette.org intende però restare anonima). E sono stati messi in piedi in circa dieci anni anni, nei quali le autrici hanno immesso nel tempo dei sotto-progetti nei loro “mondi”. In Mouchette il mondo alternativo è abitato da una giovane donna immaginaria che vuole suicidarsi mentre World of Awe è un viaggio immaginario tra realtà e “Mondo del timore”. Tutti e due si relazionano al pubblico in modo emozionale. In Mouchette l’utenza è catturata da una combinazione di infanzia e morte, in World of Awe il trainante è la costruzione di un mondo parallelo di amore che va oltre il caos e il freddo di una grande città (New York).

Entriamo così in questi mondi come in un sogno; quali progetti che contengono sia bellezza che cupezza, sogno e incubo. Inoltre cercano di raggiungere l’utenza ad un livello intimo. Mouchette infatti manda email personalizzate ai membri - utenti che lasciano i loro indirizzi sul sito, e questo accade anche in Word of Awe. Mouchette spesso cerca di individuare l’utenza dei suoi lavori, i fruitori sono invitati a partecipare, manifestando il proprio esserci, rendendo così il lavoro sempre più catalizzante e aperto. Ambedue i siti hanno inoltre caratteristiche ascrivibili ad una certa complessità emotiva e tendono a creare un’immersione.

Così invece di attrarre l’utenza immagine dopo immagine come accade in Distance, offrono, come in IN Network ( con i suoi frammenti sonori), 1 Year Performance Video e il lavoro di David Crawford Stop Motion Studies, l’occasione per essere rilevati momentaneamente, delineando la possibilità di essere masmerici, di fermarsi, e di contemplare o guardare fisso.




David Crawford | Stop Motion Studies - Tokyo (Series 8-12) | 2003-04


David Crawford: Stop Motion Studies - Tokyo (Series 8-12)

Da un mondo immaginario al mondo reale: il lavoro di David Crawford Stop Motion Studies (25) cattura l’atteggiamento e le reazioni di persone incontrate nella metropolitana. Nella serie prodotta per “Turbulence” possiamo vedere le impressioni di Crowford selezionate in una metropolitana di Tokyo. Crawford è influenzato da altri net artisti, in particolare da Heath Bunting (26), e dal suo intendere il mondo come un luogo popolato da moltitudini di network tanto da ritenere che il corpo stesso sia un network. Anche Internet è un sistema di “trasporto”, che passa attraverso segnali elettrici e può essere assimilato al sistema nervoso e alle persone in una metropolitana. Analogamente il mondo è pieno di strutture relate e di sistemi che seguono i nostri desideri e bisogni.

Crawford ha così scattato centinaia forse migliaia di immagini, e le ha estese in animazioni che ha edito cercando di sintetizzare l’essenza del momento. Questo lavoro colpisce perché è chiaro, le immagini sono briose, affilate e pulite ed è inoltre facile immaginare il loro suono. Si può così sentire il movimento delle carrozze e il suono monotono del treno. È come se tu fossi lì, o come se ci potessi essere. Ancora colpisce l’assenza del suono che scatena l’immaginazione. David Crawford così non documenta solo le persone nelle metropolitane ma ci porta con lui.

Stop Motion Studies è un interessante ibrido di fotografia - film e net art. Ed è un progetto che potrebbe essere facilmente inserito in una galleria e o in un museo. Allo stesso tempo non avrebbe provocato lo stesso effetto se fosse stato parte di una serie di film proiettati in una stanza buia. Questo lavoro funziona infatti al meglio on line. Nella versione web possiamo vedere in una volta tutte le sue parti. È un album di fotografie dal vivo da sfogliare con tranquillità, con i nostri tempi, dove possiamo scegliere la nostra animazione preferita e vederla più volte, e sperimentarla come se fossimo veramente lì seduti dove era seduto Crawford oscillando delicatamente avanti e indietro al ritmo degli annunci sonori.

Può essere interessante confrontare questo progetto con un lavoro di Heath Bunting che è stato anch’esso realizzato nelle stazioni della metropolitana di Tokyo, dal 1995 (27) e ad un altro progetto di Bunting di qualche anno prima chiamato King’s X Phone In (28), dove King’s X sta per Kings Cross, la grande stazione di Londra. Ambedue i lavori possono essere assimiliati agli Stop Motion Studies nella loro allusiva interpretazione della net art.

Communication Creates Conflict utilizza tutti i tipi di sistema di comunicazione, dalla posta, al fax, all’email, connettendo persone autorizzate a mandare messaggi a completi estranei. Heath Bunting si era posizionato nella metropolitana di Tokyo con un segnale con un nome scelto dagli utenti/partecipante e se qualcuno con quel particolare nome lo avesse contatto, quella persona gli avrebbe dato i loro messaggi. Il lavoro in questione intende provocare divertimento, creare confusione con incontri inaspettati, e seguendo un’idea sottesa a molti lavori di Bunting connette svariati network quali mail, Internet, fax, sotterranei ed umani. King's X Phone In connette Internet il sistema telefonico e la strada. Le persone sono state contattate con il sito web poi con email per fare in modo che una moltitudine di bocche chiamasse i telefoni pubblici della stazione di King’s Cross in data 5 Agosto 199 , alle 18.00 del pomeriggio. Il lavoro così ha dato luogo ad una grande party inaspettato intorno ai telefoni pubblici di King’s Cross che hanno squillato tutto il tempo. Questo lavoro analogamente tratta di network, coinvolge persone che rispondono ai network, ed è però privo di uno sguardo focalizzato e intenso sulle risposte individuali che invece è analizzato in Stop Motion Studies attraverso una mistura di ritratti, fotografie, film e net art. Attualmente Communication Creates Conflict è molto vicino a Stop Motion Studies perché contiene dei documenti e delle foto individuali di persone sorprese mentre ricevono i loro messaggi personali.

The Stop Motion Series inoltre mi fa pensare a un lavoro di Masaki Fujihata: fieldworks@alsace del 2002 (29). In questo lavoro Fujihata ha intervistato persone attraversando il confine tra Germania e Francia con una videocamera, ed ha disposto le interviste in una grande e complessa installazione. Questo lavoro ha un sottotitolo che è “registrazione di una giornata ricostruita in tre dimensioni spazialità . Fujihata accende così i ritratti aumentando a dismisura le proporzioni, dilatando così la dismisura l’ipotetico impatto di un installazione new media, questo inoltre accentua l’ordinario cittadino europeo facendolo diventare parte di una sorta di progetto organizzato dalla comunità europea. Crawford invece lavora ai suoi ritratti riducendoli e poi ne realizza degli still che anima e poi un film che edita condensato su un sito web. Così non crea un’arte eclatante ma tenta di potenziare l’utenza, lasciandole lo spazio e il tempo e la possibilità di controllare le immagini. L’utenza di un network (il web) può cosi incontrare l’utenza di un ‘altra situazione (la metropolitana).

dieci anni di “turbulence”
diez años de turbulence


“Turbulence” offre un continuo supporto all’arte on line anche se ci sono senza dubbio altre realtà che se ne occupano con passione. Gli interessi di “Turbulence” connessi alla radio, al suono e alla performance sono delle sue imprescindibili qualità extra; “Turbulence” è infatti un luogo di scambio dove si sostiene con particolare attenzione questo aspetto. La domanda da porsi è, a questo punto : “Scrivere un libro su qualcuno che ti vuole rappresentare ha forse qualcosa a che vedere con la relazione corpo/rete o con la performance? “La risposta potrebbe essere: “Si, perché è come se fosse una riflessione sulla la perdita della padronanza di sé di qualcuno attraverso i “media” e contemporaneo tentativo di mantenere il controllo attraverso un’altra persona”. Tutto ciò è come una sorta di performance indiretta, un intervento concettuale molto più intenso di una partizione musicale. La performance on line non ha più molto a che vedere con la non questionabile autenticità e con l’arte unicamente dal vivo. Allo stesso tempo è diventata una forma d’arte che ha bisogno di apparire dal vivo e rappresenta la nostra identità umana e il nostro corpo umano in una potenziale e virtuale attività vivente. Fare performance ha molto quindi a che vedere con l’interrogarsi sulla performance.

Il tempo vola. L’apertura di “Turbulence”, sembra ieri. Ho analizzato solo pochi lavori presenti nel suo vasto database. Un serbatoio dove sono moltissimi i lavori da ascrivere a quest’analisi che necessitano l’attenzione della comunità net. Auguriamoci che sia scoperto da un sempre più utenti, ma, è solo una questione di tempo.

 

 

Josephine Bosma.

Scrittrice e critico, Josephine Bosma (1962) ha iniziato a lavorare nell'ambito dei Nuovi Media facendo trasmissioni radiofoniche, documentari ed interviste su argomenti affini alle nuove tecnologie per VPRO e Radio Patapoe nel 1993. Ha pubblicato interviste, recensioni e testi critici su arte e nuovi media in numerose riviste e pubblicazioni, on e off line, dal 1996. Il suo lavoro è specificamente focalizzato sulla Net Art, Sound Art e Net Culture. Josephine Bosma ha anche organizzato numerosi eventi, tra i quali la sezione radio del Tactical Media Festival Next5Minutes 2 (1996) e 3 (1999), una notte su Net Art e Critica (2001) e la newsletter CREAM (2001/2002). Vive e lavora ad Amsterdam. http://houseoflaudanum.com/bosma


NOTE:
(1) New American Radio, 1998, <http://somewhere.org/>, (giugno, 2006)
(2) Media Art Net, 200 , <http://www.medienkunstnetz.de/works/hole-in-space/>, (giugno, 2006).
(3) Telematic Connections, (febbraio, 2001). <http://telematic.walkerart.org/overview/overview_adrian.html>, (giugno, 2006).
(4) Media Art Net, 2006, <http://www.medienkunstnetz.de/works/piazza-virtuale/>, (giugno, 2006)
(5) Crossings: eJournal of Art and Technology, 1999, <http://crossings.tcd.ie/issues/1.1/Levy/>, (giugno, 2006).
(6) N. Katherine Hayles, An excerpt from How We Became Posthuman, Chicago Press, 1999, <http://www.press.uchicago.edu/Misc/Chicago/ 21 60.html>, (giugno, 2006).
(7) Alien.Mur, 7 March , 200 <http://alien.mur.at/rax/2 _HOURS/index.html> (giugno 2006).
(8) Wikipedia.org, 16, Settembre 2006 <http://en.wikipedia.org/wiki/The_Machine_Stops> (September, 2006), il testo completo è consultabile su E.M. Forster, The Machine Stops, Plexus.org, date unknown <http://plexus.org/forster/index.html> (giugno, 2006).
(9) Tina La Porta, “Distance”, Turbulence.org, 1999 <http://www.turbulence.org/Works/Distance/>, (giugno,2006).
(10) Sto pensando in particolare a Calender, un film su un fotografo incapace di stabilire contatti intimi esociali, e in questo “gap” osserva il mondo con la sua macchina fotografica. Atom Egoyan’s website: Ego Films, date unknown, <http://www.egofilmarts.com/>, (giugno, 2006).
(11) Enculturation, 2000, <http://enculturation.gmu.edu/ _1/laporta/index.html>, Giugno, 2006.
(12) MTAA, “One Year Performance,” Turbulence.org, 5 Dicembre, 2006 <http://turbulence.org/Works/1year/>, (giugno, 2006).
(13) Tehching Hsieh, One Year Performance 1980-1981, One Year Performance, 1980-81 <http://www.one-yearperformance.com/no2.html>, (giugno, 2006).
(14) Questa comunque non è una citazione ma la mia personale riflessione sul lavoro di MTAA.
(15) Telepolis ha segnalato questa intervista in Germania. I link si riferiscono a “Nettime” con versione in inglese dello stesso testo di Tilman Baumgaertel, “Interview with 0100101110101101.org,” 9 dicembre 1999, <http://www.nettime.org/Lists-Archives/nettime-l-9912/msg0006 .html>, (giugno 2006)
(16) Un’analoga mescolanza e negazione estrema dei valori culturali della “borghesia” è presente nei film horror e in certa musica underground rock, punk, gansta rap, indice di un atteggiamento che strilla e promuove una forte critica connessa a certo Humour nero, con conseguente ribellione.
(17) Michael Mandiberg, “The Essential Guide to Performing Michael Mandiberg”, Turbulence.org, 2002,
<http://www.turbulence.org/Works/guide/>, (giugno, 2006).
(18) Michael Mandiberg, The Exchange Program, Turbulence.org, 2002, <http://exchangeprogram.org/>, (giugno, 2006).
(19) Erik Salvaggio, You Could be the Next Michael Mandiberg, Turbulence.org, aprile 200 , <http://turbulence.org/curators/salvaggio/mandiberg.html>, (giugno, 2006).
(20) Per un interessante approfondimento sulla net art quale variazione dell’arte concettuale, si veda un intervista con Ron Kuivila: Josephine Bosma, “Interview with Ron Kuivila,” The Work of Jesis, giugno, 2006, <http://laudanum.net/cgi-bin/media.cgi?action=display&id=95 755755> (giugno, 2006).
(21) Michael Mandiberg e Julia Steinmetz, “IN Network”, Turbulence.org, 2005, <http://turbulence.org/Works/innetwork/>, (giugno, 2006)
(22) Yael Kanarek, e a., “World of Awe: Portal”, Turbulence.org, 200 , <http://turbulence.org/Works/yael/>, (giugno, 2006).
(23) Yael Kanarek World of Awe, giugno 2006, <http://worldofawe.net/index.html>, (giugno, 2006).
(24) Mouchette, Mouchette.org, <http://www.mouchette.org/>, (giugno, 2006).
(25) David Crawford,”Stop Motion Studies”, Tokyo, Turbulence.org, 11 luglio, 2005, <http://turbulence.org/Works/sms/index.html>, (giugno, 2006).
(26) Heath Bunting, Irational.org, <http://www.irational.org/cgi-bin/cv/cv.pl?member=heath>, (giugno, 2006).
(27) Heath Bunting, I release!, Irational.org, <http://www.irational.org/cybercafe/tokyo/>, (giugno, 2006).
(28) Heath Bunting, “Kings X,” Irational.org, 5 agosto 199 , <http://www.irational.org/cybercafe/xrel.html>, (giugno, 2006).
(29) Masaki Fujihata, Field-works.net, 2001, <http://www.field-works.net/>, (giugno 2006).